Classificare la scelta tra la passata di pomodoro e i pomodori pelati come dubbio amletico fa sorridere. Invece dietro l’apparente banalità del “dilemma” ci sono dati e considerazioni che possono investire il futuro di un settore sicuramente strategico per l’economia nazionale e il destino economico e sociale di una parte del Paese.
Confrontando i dati degli ultimi decenni relativi alla trasformazione industriale del pomodoro emerge che nel 1990 il 51% del lavorato diventava “pelato” e solo il 12% era destinato alle “passate”.
Nel 2016 la situazione risulta completamente ribaltata: la quota di produzione del pomodoro pelato è precipitata al 16% mentre quella della passata di pomodoro si attesta al 55%.
Questi dati sono sicuramente il risultato di un mutamento delle abitudini alimentari e dell’affermarsi di alcune convinzioni da parte dei consumatori a partire da una presunta differenza di “contenuto di servizio” dei due prodotti.
Certamente si è affermata gradualmente l’idea, tutta da verificare, che la passata, a differenza del pomodoro pelato, abbrevi sempre e comunque i tempi di preparazione in cucina e che sia in ogni caso più semplice da usare.
Se però ci soffermiamo sui dati relativi alla distribuzione territoriale degli impianti di trasformazione e sulle specializzazioni produttive forse possiamo provare a comprendere cosa può essere accaduto nel settore conserviero nell’ultimo quarto di secolo.
Una rappresentazione estremamente sintetica della situazione ci porta a rilevare che in Italia si producono oltre 5 milioni di tonnellate di pomodoro destinato alla trasformazione che impegnano circa 70.000 ettari di superficie agricola. La trasformazione, in termini di quantità, è sostanzialmente ripartita al 50% al Nord e al 50% al Sud ed avviene in circa 120 impianti di cui 40 al Nord e 80 al Sud. Oltre il 90% della produzione nazionale di pomodori pelati si concentra al Sud, mentre al Nord la specializzazione produttiva è in prevalenza rappresentata da passate e concentrato.
Cosa discende con immediatezza da questi pochi ma essenziali dati?
Sicuramente che l’apparato produttivo al Sud presenta una maggiore parcellizzazione e quindi dimensioni mediamente più piccole rispetto al Nord e che la prevalente specializzazione del Sud (pomodoro pelato) ha perso e continua a perdere quote di mercato a tutto vantaggio delle produzione di punta del Nord (passata).
Quali possibili ipotesi possiamo formulare per spiegare il fenomeno?
Sappiamo bene che i consumi possono essere orientati da adeguate campagne di comunicazione, per questo la prima cosa che ci viene in mente è il famosissimo claim “O così. O Pomì.” che a partire dalla metà degli anni ’80 ha imperversato su televisioni e carta stampata, entrando nel linguaggio corrente e soprattutto facendo passare il messaggio che la passata di pomodoro fosse l’unica vera alternativa al pomodoro fresco. La Parmalat, nel caso di “Pomì”, rappresentò allora l’avanguardia di un’offensiva mediatica condotta dai grandi gruppi conservieri del Nord che hanno potuto promuovere sul mercato le proprie produzioni, favoriti anche dallo storico ritardo di un’industria meridionale caratterizzata da minori dimensioni, minore propensione agli investimenti e da un forte ritardo culturale rispetto all’utilizzo della comunicazione. Quella condotta sinora è stata una lotta impari che ha determinato la progressiva riduzione della quota di mercato dei pomodori pelati a vantaggio delle passate per il banalissimo motivo che per produrre i pelati occorre il pomodoro “lungo”, che normalmente viene coltivato al Sud, mentre il pomodoro che meglio si adatta alle caratteristiche pedoclimatiche del Nord è il “tondo” che si presta solo per passate, concentrato e polpa.
Tutto questo in ultima analisi non rappresenta solo un confronto Pelati/Passate o Pomodoro lungo/Pomodoro tondo ma un confronto Nord – Sud in cui non sono mancati colpi mancini, come quello dell’utilizzo sottinteso, strumentale e totalmente immotivato dell’argomento “terra dei fuochi” (vedi campagna del solito Pomì del 2013), argomento che con il pomodoro c’entra davvero poco, sia perché riguarda una limitatissima area a cavallo delle province di Napoli e Caserta in cui non si produce pomodoro destinato all’industria, sia perché il pomodoro che si trasforma in Campania – regione che resta al vertice della trasformazione nazionale – proviene in massima parte dalla Puglia e dalla provincia di Foggia in particolare.
Sicuramente però l’argomento “terra dei fuochi” ha pesato molto più, in termini di comunicazione, dell’argomento “triplo concentrato cinese” che vede la passata di pomodoro oggettivamente come la produzione più esposta al sospetto di adulterazioni e truffe (sarebbe tecnicamente possibile ottenerla anche diluendo triplo concentrato cinese).
Siamo convinti che entrambi gli argomenti siano autentiche “bufale”, sia per le motivazioni già espresse rispetto alla “terra dei fuochi”, sia perché la diluizione del “triplo concentrato cinese” per ottenere la passata non solo è proibita dalla normativa vigente – che impone solo l’utilizzo del pomodoro fresco – ma è facilmente riscontrabile da apposite analisi che possono smascherare gli eventuali disonesti.
In conclusione, il pomodoro italiano rimane il più buono e sicuro del mondo, quello meridionale in particolare presenta caratteristiche che lo rendono unico e in grado di rappresentare una delle maggiori eccellenze italiane agroalimentari in assoluto. Tutto questo però andrebbe comunicato in maniera appropriata, evitando guerre intestine e soprattutto valorizzando territori, vocazioni ed esperienze.